giovedì 1 aprile 2010

India Roberto Chilosi


Valtaro - India Giugno 2007
Immagini dall'India
Un altro viaggio avventura di Roberto Chilosi:
questa volta alla scoperta dell'India

Roberto Chilosi, dopo il successo della pubblicazione del suo viaggio in Mongolia, ci propone le sue memorie e le sue immagini sull'India. Un altro mondo, visto con gli occhi di un turista "estremo" borgotarese.




India.
Un uomo che dorme su strada buia e trafficata, di notte, verso Derha Dum, lo scalino tra la banchina in terra battuta e l’asfalto come cuscino, una ghigliottina perfetta per le macchine e camion che passano. Cos’é per lui la vita?
Fiumi enormi, marroni, incontaminati, carichi d’acqua, tanta quanta noi in Italia ne vediamo passare in un anno, sfide a volte rischiose o impossibili anche per canoisti esperti.

Spari di mitragliatore in una mattina fresca e nebbiosa in Kashmir, verso Shrinagar; tutto intorno, per centinaia di km, soldati in assetto da guerra, mortai, postazioni di artiglieria leggera e pesante. La gente del posto indifferente alle raffiche, oramai assuefatta da decenni di combattimenti, realtà che noi possiamo solo immaginare.
Valli verdissime, da sogno, donne che tagliano l’erba e mondano il riso, caricato poi sulla testa in enormi fascine, ripetendo un rituale vitale millenario.


I monaci buddisti del monastero di Thiskey, in una fresca e limpida alba a 3800 mt/slm, che officiano la puja, la preghiera del mattino, tra i fumi delle resine profumate nella penombra della sala della preghiera dove troneggia un grosso Buddha, molto terreni e sereni, per nulla alteri o “rapiti dall’immenso”, come invece molti sacerdoti di altre dottrine.
Il bambino monaco, sorridente, benché assonnato, nella sua tunica rossa, molto più interessato alla colazione a base di thé e cereali che viene servita ai monaci durante la funzione, che alla funzione stessa.

Il reliquiario del Mahatma Gandhi, la grande anima dell’India, nel forse unico luogo tranquillo e silenzioso di tutta New Delhi, dove quasi piango per l’emozione.
Un uomo che porta un vitello morto sul portapacchi della bicicletta. Lo mangerà?
Lo spettacolo di un’alba a 4500mt al campo di Sarchu, dopo una notte insonne, il sole che sorge sui picchi delle montagne e irradia i suoi raggi sulle valli modellate dall’erosione dell’acqua e del vento. I colori come tratti da una tavolozza di un impressionista. Una pace e una forza incommensurabili emanano da questi luoghi.



Un sik (gli indiani col turbante e la barba) che, sceso dal bus, schiaffeggia sonoramente un altro uomo. Ma non erano tutti buoni e tranquilli gli indiani?
La curiosità e la gioia dei bambini del Ladak, che ci osservano mentre ci imbarchiamo sul fiume Miru, sotto il monastero dell’omonimo paese.
Tutto il paese di Khoksar, sul fiume Chandra, che accorre sul fiume per vedere noi che passiamo con le canoe.



L’odore e la potenza del fiume Gange, la Grande Madre dell’India, dove tutti gli Indù purificano il loro corpo e la loro anima, facendo le abluzioni rituali e bevendone l’acqua.


Potrei andare avanti 10 pagine riferendo dei contrasti, i più stridenti che ho osservato, annusato, vissuto, subito, in questo viaggio in India, adesso che tutto sta per finire, adesso che, lurido e puzzolente sono in una comoda sala d’attesa all’aeroporto di Delhi, aspettando l’aereo che ci riporterà in Italia, ponendo fine ad una delle più belle esperienze della mia vita, una delle più intense, anche se più difficili oggettivamente.


Una sorta di doccia spirituale (anche se chi mi sta vicino adesso probabilmente preferirebbe che ne facessi una calda e profumata), per queste settimane passate sulle strade del paese più popoloso al mondo, probabilmente anche il più sporco e il più mistico allo stesso tempo, attraversando con ogni mezzo, dal taxi al rikscio’, dal bus al tik tok, dalla vespa al camion militare, 3000 km di India, dalle pianure di Delhi alla catena himalayana, dalle aride vallate del Ladak al verdissimo Kashmir.
Un viaggio dentro e fuori di noi, in un luogo che forse più dell’Africa per noi occidentali rappresenta la tenebra; un paese affascinante e spaventoso allo stesso tempo, dove la folla regna sovrana, un fascino magnetico, un viaggio nel cuore dell’uomo e nelle sue forme più deteriori e abbiette, un paese sempre in grado di stupire per la sua spiritualità
e per la varietà delle condizioni in cui versano i suoi abitanti.



Un viaggio attraverso le quattro religioni principali che alimentano l’India del suo spirito: l’Induismo, quella prevalente, con i suoi 500 milioni di adepti; l’Islamismo che conta quasi trecento milioni di seguaci; il Sikkismo, 7 milioni; il Buddhismo, più che altro concentrato in Ladak e Kashmir, 5 milioni.

Religioni che permeano la vita quotidiana degli indiani e che, l’induismo in particolare, li rende perfettamente indifferenti alla morte.
Una distanza siderale dal nostro modo di concepire la vita, la nostra paura della morte.
Un induista, vive adesso quello che ha meritato nella sua vita precedente e quello che fa adesso gli sarà dato in più, se ha fatto del bene, in meno se del male, nella prossima reincarnazione, cosa che li rende assolutamente indifferenti rispetto al presente.



Francamente, al di là di ogni ipocrisia, sono contento di essere nato in occidente e mi ritengo fortunato.
Gli indiani sono 1 miliardo e si vede: le strade, i villaggi sono affollati oltre ogni possibile immaginazione, c’é gente ovunque, nelle città il traffico é congestionato e lo smog é terribile molto oltre le nostre soglie.


Non é un viaggio facile, anzi direi che é uno dei paesi più difficili, i 5 sensi sono continuamente scossi e messi a dura prova, si aggiunga la loro imperizia, ove non proprio follia, alla guida e il quadro é completo.
Tutto é brutale e magnifico allo stesso tempo, proprio grazie a questa diversità, tutto é estremo, gli odori, i sapori, la sporcizia onnipresente; l’India ti schiaffeggia, ti scuote, ti emoziona, ti spaventa, ti fa ridere, incazzare, urlare, non ci si annoia mai.


Basta sedersi sul ciglio di una strada ed osservare, ammesso e non concesso di non essere fatti oggetto di continue attenzioni da parte di mendicanti, lebbrosi, curiosi.
Sono puliti come persone, si lavano continuamente, per quanto non rispettano l’ambiente che li circonda gettando tutto il superfluo per strada davanti a casa, dove gli capita.


Ma questa é l’India “bassa” di New Delhi, delle regioni del Punjab e del Jammu, dell’Uttaranchal Pradesh, l’India calda, rorida.
Il Ladak invece, considerato giustamente il Tibet indiano, é un altro mondo, culturalmente, geograficamente, climaticamente


La capitale, Leh, una operosa cittadina sovrastata dal Leh Palace, monastero buddhista che pare abbia ispirato nella sua architettura il più famoso e imponente Potala Palace di Lhasa, é situata a 3600 metri sul livello del mare e spesso si viaggia in auto al di sopra dei 4000 con punte fino a 5600 metri.



Il clima e fresco e asciutto, data l’altitudine, il paesaggio mozzafiato contornato dalle bianche cime himalayane, benché arido nei fondovalle, eccetto che nei pressi dei villaggi, sempre costruiti comunque nei pressi dei corsi d’acqua.
Il Ladak é attraversato dal fiume Indo (una delle nostre mete canoistiche) da est ad ovest, il leone d’oriente, che, come il Brahmaputra e il Gange, nasce dal monte Kailash in Tibet, l’ombelico del mondo, come viene definito dai monaci buddisti, e tagliato da sud a nord dall’altrettanto impetuoso ed enorme Zanskar (altra altrettanto importante nostra meta canoistica), che prende il nome dall’omonima regione posta a sud della capitale.


La gente é di etnia diversa rispetto alle pianure, con tratti somatici molto più rispondenti al modello tibetano, con facce più rotonde e corporatura più massiccia, frutto anche di una dieta più ricca di proteine, comunque con visi segnati dall’inclemenza dell’inverno himalayano con la scura pelle, segnata dal vento e dalle basse temperature.


Anche la densità demografica é molto inferiore rispetto alle pianure e, in ogni caso, i popoli delle montagne sono molto più dignitosi, a livello di numero di questuanti presenti nelle strade, rispetto al resto dell’India e anche molto più puliti.
Per farla breve ti vedono un po’ meno come “un dollaro (o un Eur) che cammina”.
Il Ladak é anche relativamente turistico e a me ha ricordato per molti aspetti Katmandu.


Dopo questa notevole ma necessaria introduzione ecco il viaggio e lo svolgersi degli eventi….
Voliamo bene e in uno zot! (thank-you for fliyng British Airways…) siamo a Delhi, ma sorpresissima, appena esco dal corridoio del Jumbo, giusto il tempo per tirare le prime due boccate d’aria umida e calda indiana, eccoti il mio nome scritto in cima ad una lista di altri 5 o 6 con l’ingiunzione di presentarmi agli uffici della compagnia aerea SUBITO!
Forse che sono famoso in India???


No, no, non mi caga nessuno e, come temevo, mi comunicano che le canoe hanno da arrivà perché non le hanno caricà, para ponzi ponzi pà.
Arriveranno domani alle 22.50 pm, gli inglesi sono gente precisa, e ce le porteranno loro in albergo, risparmiandoci la briga di venirle a prendere in aeroporto.
Subito ‘catto un pre-payed taxi e gli ingiungo di recarci rapidi, poiché storditelli, in un albergo confortevole ma economico.


Balziamo felini dentro l’umile Tata, leggeri come piume perché senza barchette e solo col bagaglio a mano ed ecco New Delhi.
Nonostante l’ora tarda, molto traffico e un bel po’ di umanità dormiente per le strade: che non ce l’hanno la casa?
No, poveri poveri sono.
Sono mesi che lavoro psicologicamente ai fianchi i miei compari per evitargli lo shock indiano, quindi spero che non inizino a piangere subito.



Tali compari sono: la mia sciura tal Federica la tosta; Ruben il distratto neofita canoista; Ivan il terribile neofita canoista, tutti quanti valtaresi vivaddio!
Dormiamo dormiamo e la mattina dopo siam già li’ che ce la giriamo sotto un bello scroscio di monsone per le vie della città che é ENORME.
Si opta per il taxi, perché fighetti siamo e perché nulla costa (8 eur per un gg a zonzo).


Giriamo di qua giriamo di là, finché stanchi dell’umanità colorata ed invadente ( e puzzolente) andiamo a visitare il reliquiario del Mahatma Gandhi, forse l’unico posto silenzioso di Delhi, se non di tutta l’India.
Beh, qui adesso sono serio, mi emoziono davvero e mi vengono le lacrime agli occhi, perché mi sono appena letto la biografia della Grande Anima (Mahatma) dell’India e trovarmi li’ vicino a lui, mi sembra incredibile.



Ma il momento serio mi passa subito fuori del giardinetto e riprendo il mio normalissimo tran tran da coglione.
Alle 19.00 mi comunicano in albergo che le canoe stanno volando e che me le consegneranno domattina alle 7.00 am.
Andremo in Ladak in auto perché vogliamo vedere il paesaggio e magari farci qualche fiumetto sulla strada per Leh, la capitale: ci vorranno tre giorni (1060km)


Si prenota una bella Toyota (sempre più fighetti) e si parte.
Il nostro autista é un sik (sigh!): i sik, per gli ignoranti, sono gli indiani col turbante che non si tagliano mai la barba e i capelli e che vivono secondo i 5 precetti (kakkar) della loro religione, nata nel 1550 circa, cercando cogliere il meglio dall’induismo e islamismo: i 5 precetti sono le 5 k: kilo kilo kilo kilo kilo, egocentrico….no no no…eccoli qua: kesh, non tagliarsi mai la barba e i capelli; il kirpan, ovvero la spada; kanga, il pettine di legno infilato nei capelli; kaccha, la mutanda larga per l’agilità; karra, il bracciale d’oro al polso destro per la propria sicurezza personale.


Hanno l’aria un po’ rissosetta e scura (nei secoli hanno combinato dei bei disastri: l’ultimo, l’assassinio di Indira Gandhi), si chiamano tutti, ma proprio tutti Singh, nome del loro fondatore= leone, di cognome e sono molto fieri, nulla a che vedere con gli Indù, più umili e mansueti.
Il nostro si chiama Lucky (speriamo) e ha un panzone molto poco indiano, dal quale scaturiscono via culo, sonorissime scoregge e, via bocca, rutti di fantozziana memoria.



La prima cosa che ci dice é che per girare per le strade dell’India ci vogliono le 3G: good car, good driver e good luck, ma vaff….
‘bona ‘a terza e cominciamo il rito che durerà 16 giorni di tenere le mani sul basso ventre.
Altro che i quinti e i sesti gradi in canoa, le strade indiane sono degli impraticabili: suonano sempre, sorpassano di più, invadono la corsia opposta, il tutto in mezzo a bici, rickscio, camion, autobus, mucche, capre, cani, un paio di elefanti e qualche dromedario; poco adatte a anime fragili, il frontale é sempre li’ dietro la curva.


Prima tappa dopo 11 ore belle tostarelle: Manali, località turistica per modo di dire, a 500 km da Delhi, sul fiume Beas, che é proprio bello, ma che forse scenderemo in un secondo tempo, al ritorno.
Non lo scenderemo per niente.
Qua si sta già meglio perché siamo a 2000 mt. Sulla strada per qua, centinaia forse migliaia di ragazzi in bici, pellegrini Indù diretti al tempio di (****vd).
La mattina dopo, assai presto (chi dorme non piglia pesci e non fa i fiumi) partiamo per destinazione Sarchu 4350 mt slm, il paesaggio é da mozzare il fiato, l’altitudine pure, valeva proprio la pena venire in macchina pero’.




Scendendo dal passo Rothang-la (3978) eccoti un fiumone, proprio one-one, il Chandra, questo non ce lo facciamo scappare e ne scendiamo un tot incontrando difficoltà fino al ww 4 di volume (almeno 400m3/sec).
Mentre ci cambiamo tutto il paese di Khoksar é a vederci, perché probabilmente di canoe se ne vedono poche, di Zulu Rainbow rosa ancora meno (la mia amatissima Zulu rosa).
Federica la tosta sulla sponda fotografa fotografa.


Il viaggio prosegue, meraviglioso tra ghiacciai a livello strada, villaggi immacolati, strade terribili, il passo Bararacha-la prima di Sarchu é a 4883 mt e si sente.
A Sarchu, passiamo una brutta notte, ma la mattina le batte tutte per maestosità e meraviglia del paesaggio.



Altra giornata di viaggio infernale 12 ore con due passi a 5200 mt, il Lanchlung-la e il Taglang-la, ma tutto brilla e le bandierine della preghiera che i tibetani (i buddisti in generale) sono soliti mettere nei punti più alti e ventosi perché raggiungano meglio il loro Dio, sventolano furiosamente.
Vedo anche lo Tsarap che vorrei fare solo soletto in questi giorni, ma il pensiero di fare a ritroso questa strada per un giorno sballonzolato come una pallina da flipper, placa ogni mia fame canoistica.


In questo senso l’aereo (1 ora e mezza contro 3gg) aiuta molto.
Il nostro autista sik-singh-sigh, vomita copioso che l’altitudine lo ha fregato e poi perché mangia come un porcello.
Quest’uomo ama le buche oltreché il cibo, maledetto il mondo, ha il sesto senso per non mancarne una e le canoe decollano rovinosamente.


La sera comunque storditi, ma entusiasti per la fine del viaggio e la bellezza del luogo siamo a Leh, che é un po’ turistica e ricorda per tipo di negozi e aria che si respira, un po’ trek un po’ freak, Katmandu.
Arrivando qui abbiamo visto un bel torrentello senza nome e anche l’Indo: già si programma per il dopodomani.


Leh é sovrastata dal Palace, un gompa (monastero) molto simile al Potala di Lhasa in Tibet e dal bianco Shanti Stupa, famoso per i 538 scalini che ciulano i turisti incauti nei primi giorni dell’acclimatamento.
Ci sono un botto di israeliani, qualche italiano riconoscibilissimo perché griffato come nessun altro popolo al mondo, un po’ di inglesi e un po’ di francesi.


Molti sono qui a farsi le canne che la roba costa poco, altri trekkano su é giù per le montagne, di canoisti solo noi e 4 inglesi, gli italiani sono tutti ma proprio tutti quelli che abbiamo incontrato con viaggi organizzati, orrore.
Subito si cerca il volo per il ritorno e subito non lo si trova, perché tutto pieno fino alla fine del mese, sicché puttana miseria ecco un’altra bella botta ai programmi canoistici e giù a cercar percorsi alternativi.


Si passerà dal Kashmir, ma c’é tempo, nel frattempo ci godiamo i monasteri, le pasticcerie l’aria fresca e frizzante dei 3600 metri di Leh, i suoi spettacoli in costume.
Mi ricorda molto il Tibet col vantaggio pero’ che qui i monasteri sono ancora tutti in piedi perché non sono venuti i cinesi a buttarli giù con i cannoni.


Si parte per il fiumetto senza nome, anzi un nome glielo do’ io, magari é una prima lo chiamo Miru, dal nome del paisiello dell’imbarco a 3800 mt, sotto un bel monastero.
10 km x 20 m3/sec x WW 3-4+ x 25x1000 di pendenza che l’esplorazione é una cosa seria.
Federica la tosta se ne starà a far niente tutto il di’ a Leh, giracchiando e mangiando golosa.


I due baldi giovani scendono sicuri e determinati in barba alla loro gioventù canoistica (neanche un anno che vanno in canoa, prodotti del mio vivaio), nonostante qualche emozione su una cascatella con forte ritorno, unico passaggio fetente del percorso.
Il Meru si getta nell’Indo qualche km sopra Upshid.
L’Indo é bello grossotto, ma non tremendo: un 100/120 m3 x 15km ww 3-4, un trasbordo.
Comunque é un fiume sacro e io, che ci tengo a queste cose, sono proprio felice, complice la giornata tersa e ventosa, ma non fastidiosa.


Visto che non ci sono voli, quindi giorni a sufficienza si decide di scendere lo Zanskar solo nella parte all’uscita delle gole, ovvero quella raggiungibile dalla confluenza con l’Indo, risalendo la valle.
Ma questo poi… il giorno dopo l’Indo é tutto un girare per monasteri e feste in costume che ci entusiasmano per i loro colori


Si gira con una vespa presa a nolo che però si grippa, la mia, quella dei due putelli invece va come un orologio.
Lo Zanskar: quando arriviamo alla confluenza ben visibile dalla strada che collega Leh con Nimmu, resto di stucco, mica me lo aspettavo così grosso: é almeno 4 volte l’Indo e marrone scuro.



Ma la valle….la valle é una cartolina ad ogni curva, ad ogni ansa del fiume, il paesaggio arido ma imponente contrasta di molto con la quantità d’acqua presente nel fiume.
I due giovani, non scenderanno, mi dispiace per loro, ma ancora con un eskimo non troppo sicuro, un bagno qui potrebbe avere brutte conseguenze e, maturi come pochi, loro stessi preferiscono osservare dalla sponda più comodi sulla Maruti Suzuki che ci porta su e giù che rischiare la brutta nuotata, in più il fiume é freddo.


I picchi di roccia di mille colori e sfumature sovrastano altissimi la valle, panettoni di scisto, di marmo di granito di roccia rossa, nera, marrone a panettoni, a guglie, a sfoglie nere, curvate come un arco teso, un paradiso per un geologo, mi lasciano senza fiato e fotografo senza posa.
Ogni tanto una chiazza verde, con una casa, tipica forma tibetana, quadrata o rettangolare, rossa o bianca, con il tetto piatto, normalmente facente funzione di essiccatoio per il fieno, sterco, cibo, i 4 angoli segnati da bandiere della preghiere e grosse finestre.




Ne scendo un po’, poi torniamo a Leh.
Il giorno dopo i due baldi si scendono da soli il tratto classico dell’Indo da Leh a Nimmu, 20 km x WW 3-4 e rientrano con un camion militare.
Prima di questo ci alziamo alle 4.30 am e ci fiondiamo a vedere la puja nel monastero di Tskey, che é quello che ci é piaciuto di più.


La puja é la funzione mattuttina dei monaci buddhisti, la preghiera con tanto di offerte e colazione compresa.
Noi assistiamo all’interno di questa sala, nella penombra, seduti sulle panche poste sul perimetro della sala stessa, che é in legno, col pavimento in pietra, con i due tamburi ai lati, e la grossa statua del Buddha al centro. I monaci hanno un’aria serena, per nulla alteri o distaccati, ma molto sorridenti e disponibili, i bambini monaci, sempre rigorosamente nelle loro tuniche rosse, preparano la sala, bruciando resine profumate sulle braci e pulendo il pavimento.



La preghiera inizia e, mano a mano, si aggiungono monaci e il tono sale. Un bambino, penso sui 5 anni, sbadiglia continuamente perdendo il ritmo della preghiera e, distratto, continua a guardarsi intorno.
A metà della funzione viene servita, a loro non a noi, la colazione, che interrompe solo per pochi minuti il rito.



Dopo un’oretta però la fame attanaglia i nostri stomaci e rientriamo a Leh, dove ci riempiamo di torta al cioccolato.
Verso il Kashmir.
Altro giorno altro regalo del Dio del paesaggio: il viaggio da Leh a Kargil, avamposto del Kashmir é meraviglioso per quanto tortuoso e siamo anche un po’ curiosi di vedere com’é “stu minchia di Kashmir” dove non troviamo due dico due persone che ci abbiamo detto la stessa cosa in termini di sicurezza personale, morale: sparano ancora o no?


Io direi che non é ancora un posto tranquillo, perché ci sono troppi militari, troppa artiglieria, troppi guerriglieri pakistani, troppe mine nei campi, ma ci sono anche tanti di quei fiumi e così belli e tutti vicini tra loro che GIURO che ci torno appena si quetano.
Uno spettacolo: il Suru, i suoi affluenti di cui non so il nome, il Sindh che é una Dora Baltea di 50km, altri che sono già praticabili alla sorgente dal ghiacciaio.



Pero’ sul Sindh sentiamo qualche raffica di mitra e, la strada per Shrinagar, ha un soldato in assetto da guerra ogni 500 mt, mortaio compreso. Brutta storia.
Quando sentiamo sparare ci agitiamo solo noi, gli altri sul bus non fanno neanche una piega, proprio vero che ci abitua a tutto, anche alla guerra, e questo mi fa veramente tristezza.
Prima del Sindh, tra Drass e Sonamarg, paese bello ma completamente militarizzato dove facciamo una colazione olimpica, la strada precipita per 2000 mt di dislivello in una successione di tornanti e burroni da togliere il respiro dal passo di Zoji-la (3529).



Da Shrinagar che é una discreta e grande città con un bel laghetto prendiamo subito un taxi per Jammu, vogliamo andare a Rishikesh sul Gange che pero’ dista 1400 km.
Dobbiamo sparare tutte le nostre cartucce, non ci fermiamo un attimo…
Il viaggio é guarda un po’ bello, ma “curioso” e lento per i continui posti di blocco dei militari, dove però incontriamo un altro fiume fantastico, anche questo però con necessità di permesso dei militari, il Jelema, almeno 1000/1500 m3 sec ww 4.


Jammu, invece fa schifo é una brutta città e il nostro tassista, stronzissimo, ci racconta una balla tremenda alla quale abbocco come un pivello e ci molla, orrore, dopo 15 ore di viaggio e con 40° al 98% di umidità alla stazione dell’orrida cittadina.
Che burdel!!!! Lo spettacolo delle stazioni ferroviarie dell’India non é dei più edificanti, soprattutto quando non ci sono treni da prendere, pollo che sono.


Taxi, n’ata vota, e albergo, stavolta air-conditioned, tanto i prezzi sono stracciati.
Qualche prezzo?
Per un taxi con portapacchi per le canoe ci vogliono sui 50/60 eur al gg, per l’autobus 5.
Si mangia discretamente, si vi adattate, con 1 eur a testa e si dorme con 2.
Quella notte ne spendiamo 20. Federica, la tosta, si sente in colpa per i poveri che ci sono fuori, io sinceramente no.



Oramai, si fa per dire, ho sofferto abbastanza nei miei viaggi e una bella notte fresca mi fa solo bene.
La mattina dopo cercano di nuovo di farmi fesso col taxi che da Jammu ci porterà a Rishikesh, ma questa volta non abbocco e mi incazzo pure, che sono buono e bravo e porto rispetto per tutti, ma non sopporto di essere preso per il culo, solo perché sono occidentale.
É una forma di razzismo anche la loro




La strada per Rishikesh é un bel pugno nello stomaco, primo perché non finisce più, secondo perché fa un caldo bestiale, terzo perché uno dei due autisti, Sherma, seppur simpatico, guida come un maiale.

Lungo la strada, vediamo di tutto, ma proprio di tutto, e arriviamo a notte fonda sul Gange non prima di esserci incastrati con la macchina con le canoe sopra sotto un sottopasso.
CHE CALDO!!! C’é così umido che potrebbe piovere in camera, il Gange é grosso davvero.
Rishikesh é considerata la capitale mondiale dello yoga ed é una meta di pellegrinaggio degli Indù.



Gli Indù…gente strana per noi, benché modestissima e spirituale; sono gli artefici della suddivisione in caste e adorano qualsiasi cosa, la religione glielo permette.
La suddivisione in caste é illegale dal giorno dell’indipendenza (15/08/1947) e per volere dello stesso Gandhi che combatté tutta la vita per l’abolizione di questo sistema di emarginazione terribile e preistorico, derivante in origine dalla calata delle popolazioni ariane dagli altopiani asiatici e dalle pianure dell’Iran, ma resiste di fatto e ne influenza il modo di vivere.



Le caste principali sono 4: i bramini, la casta più alta, ovvero i sacerdoti; i kshatryia, i guerrieri; i vaishya, mercanti; i shudra, contadini: infinitamente più in basso ci sono i dalit, gli intoccabili, ovvero gli spazzini e i becchini.
Questa suddivisione é di massima perché le sottocaste sono quasi tremila e meritano menzione gli adivasi che sarebbero gli aborigeni indiani e i dom, i raccoglitori di ossa.


L’induismo é una religione anche difficile da definire perché non ha un fondatore, né un’autorità centrale o una gerarchia, e non pratica nemmeno proselitismo.
Principalmente credono nel Brahaman che é eterno, infinito e non é stato creato. Alla fine tutto farà ritorno a lui.


Le migliaia di dei che loro adorano, e la scelta é libera (ci sono templi dove si adorano i gatti, i topi, i cani, gli scorpioni etc etc), non sono altro che manifestazioni del Brahaman.
Esistono fattori unificatori che comprendono il samsara (l’infinito ciclo della nascita, morte e rigenerazione), il karma (la giustizia per la condotta e le azioni passate), il dharma (il comportamento consono che ci viene assegnato nella vita) oltre al sopraccitato sistema delle caste.
Credono che la vita terrena sia ciclica: la qualità della nascita dipende dal karma di ciascuno di noi nella vita precedente.


Vabbé..comunque le manifestazioni più note del Brahaman sono: Brahma, il creatore; Vishnu il conservatore; Shiva il distruttore e la moglie Parvati, più una serie di più o meno noti dei (per noi) tra i quali la dea Kali, quella cattiva con 9 braccia e teschi al collo; Ganesh l’elefante porta fortuna; Krisna che combatte contro il male.
E adorano le vacche.

Anch’io le adoro, ma cotte, preferibilmente al sangue, in una padella o sulla griglia.
Pardon per il poco rispetto, ma in India ero un po’ a corto di proteine e vedermi queste migliaia milioni (perché tante sono) bistecche ambulanti comodamente e impunemente spaparanzate in mezzo alla strada, altere e superiori, assolutamente tranquille e facenti i cazzacci propri, ha rischiato più volte di spingermi al sacrilegio capitale….


Niente. Ho mangiato riso e qualche misero polletto.
Insomma siamo a Rishikesc con una clima orrendo ma il posto é bello, qui inizia la valle del Gange, che é in piena, ma fattibile (almeno 2000 m3/sec), pero’ subito voglio fotografare i pellegrini che si recano al di là di uno dei due ponti per andare ai ghat nello Swarg Ashram, la comunità religiosa, le scalinate che scendono al fiume, si spogliano e fanno le abluzioni nell’acqua sacra.



Nonostante l’acqua putrida, non resisto alla tentazione e le faccio pure io, anche se non la bevo, avendo già programmato nel pomeriggio la discesa della gola superiore.
Per sudare basta pensare e in un baleno siamo grondanti e lezzi come al solito, ma chi se ne importa.




Il pomeriggio risalgo la valle in taxi e mi trovo un comodo punto di imbarco, memore dei problemi coi serpenti in Bolivia non voglio rischiare trekking nella foresta con il caso di incontrare Sir Cobra Nero (dopo miss italia nera un cobra nero, non me par vero, un cobra nero che cicca le gambette all’italian, perche s’é vero indian, CIT: Sanremo 1997, Papa nero)



Torno giù, carico la canoa e il tassista mi dice “No sir, river is not allow”
IO-“what??? Listen man, I did 3000 km to paddle to this river and I’ll do right now”.
LUI-“No, sir. The river is closed between 15/- 15/9 for the pilgrim”.
Mi viene da piangere.



Siccome a me non piace fare l’occidentale arrogante che non rispetta le usanze e le regole del posto, decido che non farò il Gange, mooolto, moltissimo a malincuore, limitandomi a scendere in acqua con la canoa di fronte alla Swarg Ashram, ma sulla sponda opposta per farmi fare qualche foto con lo sfondo del paese.




Affonderò i miei dispiaceri nell’alcool.
Nemmeno, perché la birra e il vino sono illegali o qualcosa del genere e, in ogni caso non si trovano.
Il mattino dopo partiamo per Delhi perché avremo l’aereo in nottata: taxi perché vogliamo arrivare in fretta in città per comprare cose.


Il taxi é una vecchia Ambassador (tipo Fiat 1100) che passa acqua da tutte le portiere, finestrini, da sotto e, sorpresa, ma neanche tanto, non ha i freni.
Ad Haridwar, dopo 20km, decidiamo che é meglio prenderne un altro e montiamo su una bella, per modo di dire, Tata.


Per arrivare a Delhi impiegheremo 11 ore perché il traffico é totale e ci faremo portare direttamente in aeroporto.
In questi ultimi km elaboro un piano, dettato dalla stanchezza e dallo stress emotivo dei viaggi in auto, che consiste nel prendere il primo autista (di solito quelli dei bus) che sorpassa senza guardare rischiando di spiaccicarti sul parabrezza, impiccarlo e appenderlo all’entrata del paese a mo’ di esempio, come fanno ancora alcuni contadini con le cornacchie da noi nei campi di grano e mais.
Un autista per ogni paese, anzi, meglio, uno all’entrata e uno all’uscita.


Guidare e avere il rispetto per l’ambiente sono forse le uniche due cose che, come dice Ivan il terribile, potremmo insegnare loro.
Sensibilizzazione nelle scuole per le generazioni future per una guida prudente, per la raccolta non dico differenziata, ma almeno per una raccolta e non il semplice lancio della merda fuori dalla finestra o dalla porta di casa.



Questa sarebbe, visto il numero degli indiani, una battaglia da combattere, educandoli e sensibilizzandoli a rispettare la terra meravigliosa che hanno.
Loro forse si reincarneranno, ma la plastica resisterà a tutte le loro vite.
In aeroporto l’ultima emozione, vogliono farmi pagare il sovraccarico delle canoe: più che la mia Zulu Rosa (bontà di Diego Rainbow….) che é leggera, quelle di Ruben il distratto e Ivan il terribile, e la ragazza del check-in va a chiamare il capo scalo della British.


Il signore molto educato, mi dice che… ma lo interrompo dicendogli con molta calma che io sono un giornalista, che ho un accordo con gli uffici di Roma della compagnia che la British é tra gli sponsor di questa spedizione.
Ci crede, le canoe passano, adesso posso dormire



Foto e articole tratto da http://www.valtaro.it/